Sono una traduttrice e proofreader. Per il secondo termine devo sempre soffermarmi a spiegare in realtà di cosa mi occupo. Quando poi lo traduco e mi presento come un correttore di bozze scatta il coro “ah, ma allora sei di quelle noiose che correggono gli errori!”. Diciamo che sì, li cerco, li trovo, e li correggo.
Sembra un po la Poesia dell’Anello “un Anello per domarli, un Anello per trovarli, Un Anello per ghermirli….”
Torniamo alla correzione di bozze. Qui sorge la domanda: essere un correttore di bozze, anche detto redattore, contribuisce nel far sviluppare la sindrome del Precisetti grammaticale, anche detto grammarnazi, grammaticalmente pedante e scassaballe?
Nel mio caso sì. Non tanto da avere magliette che idolatrano l’Accademia della Crusca ma quel che basta per essere considerata parte della schiera dei “Precisetti” (grammarnazi o scassaballe, decidete voi). Chi, come me, si sente rappresentato da questo squadrone, sa bene che a leggere “un automobile” senza l’apostrofo o “ke” al posto di che, ci partono le coronarie. Non parliamo poi di quando il congiuntivo è opzionale.
Ammetto di non riuscire a farne a meno e anche se tacessi, il mio interlocutore capirebbe sicuramente dall’espressione di sofferenza sul mio volto che qualcosa non va.
La correzione, il proofreader, la sente quasi come una missione a protezione della cara Grammatica Italiana.
Dopo anni di esperienza nella scrittura di articoli di qualsiasi forma (giornalistici, blog, romanzetti inediti e che rimarranno tali) e di correzione di bozze mi è quasi spontaneo farlo. Questo è il lavoro di un correttore di bozze: fare attenzione alla grammatica, alla punteggiatura, ai troncamenti delle parole e a sistemare bene la formattazione del testo.
Secondo uno studio diretto dalla Professoressa Julie Boland dell’Università del Michigan, chi corregge gli errori grammaticali è una persona sgradevole. A priori. Tralasciando il fatto che, personalmente, considero questo tipo di studi sullo stesso piano di quelli del “chi arriva sempre in ritardo è più intelligente”, penso che sia molto sommario dare un giudizio in toto sull’argomento. Il solito facciamo di tutta l’erba un fascio, insomma.
Io credo nella Dea del garbo e della moderazione, oltre alla Dea grammatica e che tutto stia nel modo in cui ci si pone e nell’essere critici anche nei confronti di sè stessi.
Non siamo infallibili, anzi. Io ad esempio evito di fare hara kiri o di prenderla sull’offesa e reagisco con un sorriso, ovviamente subito prima di andare a documentarmi e studiare la correzione. Ho un accordo speciale con mio marito: ogni volta che sbaglio io qualcosa ed è lui a notarlo e a correggermi, scatta una birra omaggio. E gliene ho già offerte qualcuna, garantisco!
Chiaramente se si entra a gamba tesa con una mossa da cartellino rosso, sarà normale essere considerati oltre che estremamente precisi, anche dei fotonici rompipalle. Se, al contrario, mentre si introduce con delicatezza la correzione all’errore visto o sentito, si conserva un atteggiamento educato e affabile, la risposta sarà differente.
Concedeteci quindi di avere la nostra deformazione professionale e di esternarla, a patto di non esagerare. Nel caso basterà prenderci un paio di volte degli scassaquellochevolete per ritornare in riga.
E comunque, sì, sono anche sempre in ritardo 😉